IL LUSSO? I DIRITTI, NON IL PETROLIO. IN KUWAIT E’ TORNATO IL BOIA

03 Dicembre 2022 :

Sergio D’Elia su Il Riformista del 2 dicembre 2022

Da maledizioni terribili possono nascere fortune grandiose. La devastante siccità che colpì la penisola arabica nel diciottesimo secolo spinse le tribù provenienti dal Neged fino all’estremità del Golfo Persico. Esse diedero vita alla piccola città di Kuwait, che divenne nel tempo un grande centro di commerci e di pesca.
Anche lo stemma del Paese che include un veliero a boma, una specie di sambuco, testimonia la sua tradizione e fortuna marittima. La scelta delle tribù di assegnare il titolo di sceicco a un membro della famiglia Sabah diede origine alla dinastia regnante più longeva del mondo arabo. Ormai sono diventati sedici i sovrani Al Sabah che governano il Kuwait da due secoli e mezzo. Il regno degli sceicchi Al Sabah poggia oggi su un immenso pozzo di petrolio. Lo stesso simbolo della compagnia, espresso dalle due vele colorate, si ispira all’antica vocazione marinara e alle tradizionali imbarcazioni a vela del Kuwait.
L’oro nero non è un bene di lusso per l’emirato, è risorsa naturale essenziale che fa andare avanti, inquina e ricatta il mondo. Beni di lusso sono i diritti umani, e il Kuwait – e, al suo cospetto, il mondo – ne può anche fare a meno.
Sulla superficie di uno dei più grandi giacimenti di petrolio del mondo vedi le stesse facce delle stesse povere razze che trovi ai piccoli distributori di benzina lungo le strade dei paesi ricchi del mondo. Sono le facce di sauditi, pakistani, siriani, etiopi, eritrei e quelle dei “Bidoon”, i senza terra né patria, gli ultimi della società, gli ignoti anche agli uffici anagrafe del Paese. Sono anche le stesse facce e le stesse razze che popolano il braccio della morte del regno della famiglia Al Sabah.
Le esecuzioni sono rare in Kuwait anche perché la pena di morte, ammessa secondo la Sharia, è soggetta a numerosi passaggi di verifica e nullaosta, tra cui il consenso dei parenti della vittima in caso di omicidio e l’approvazione finale da parte dell’Emiro. Però, ogni cinque, sei anni accade che il boia venga richiamato in servizio e recuperi il tempo e il lavoro perduti e impicchi i condannati a morte per omicidio premeditato, traffico di droga, sequestro di persona e stupro.
Il 16 novembre, per la prima volta dopo una pausa di cinque anni, le autorità del Kuwait sono tornate a eseguire condanne a morte. Sette persone sono state giustiziate all’alba di un solo giorno. Gli appelli dell’ultimo minuto di Amnesty International, dell’Unione europea e di altre organizzazioni per i diritti umani non hanno avuto successo. Non sono stati forniti molti particolari sulla mattanza capitale. Si sa solo che le esecuzioni sono avvenute nella prigione centrale di Kuwait City. Non è stato reso noto ufficialmente neanche il metodo utilizzato anche se, in genere, lo sceiccato i suoi condannati a morte li impicca, raramente li fucila. L’agenzia di stampa statale KUNA ha identificato le vittime solo come “tre uomini kuwaitiani, una donna kuwaitiana, un uomo siriano, un uomo pakistano e una donna etiope”. Ai giustiziati non sono state riconosciute identità anagrafiche, ma solo profili criminali; sono stati connotati dai loro reati: omicidio premeditato e altre accuse. Le ultime esecuzioni, anche in quel caso di sette persone tra le quali un membro della famiglia reale, erano avvenute il 25 gennaio 2017.
Le esecuzioni del 16 novembre scorso sono coincise con la visita nel Paese del funzionario della Commissione Europea Margaritis Schinas. L’Unione Europea lo ha considerato uno sgarbo. Ha immediatamente criticato le esecuzioni e ha implorato una moratoria di fatto della pena di morte, come primo passo verso la sua abolizione formale e completa. L’Unione Europea ha definito la pena capitale “una punizione crudele e disumana”, ma difficilmente trarrà conseguenze dalla crudeltà e disumanità dell’ultima ondata di impiccagioni. Ha pianificato di convocare l’ambasciatore del Kuwait a Bruxelles, ma non ha ritirato la proposta di inserire il Kuwait nell’elenco dei Paesi senza obbligo di visto per i suoi cittadini in viaggio verso l’Europa.
Le sette esecuzioni di novembre sono “una legittima forma di retribuzione”, secondo l’istituto giuridico islamico del “qisas”, e serviranno da deterrente, hanno assicurato le autorità.
“Hanno privato le vittime del più sacro dei diritti in questo mondo, che è il diritto alla vita”, ha affermato in un comunicato la procura nazionale dello sceiccato. Il diritto alla vita dei carnefici, evidentemente, non rientra nella categoria dei diritti sacri universali.

 

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