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‘BASTA PENA CAPITALE!’: L’ULTIMATUM DELLA CORTE AFRICANA ALLA TANZANIA

June 22, 2024:

Sergio D’Elia su L’Unità del 22 giugno 2024

Nzigiyimana Zabron e Dominick Damian hanno passato dodici anni nel cimitero dei vivi, il braccio della morte della prigione centrale di Butimba, una struttura di massima sicurezza vicino a Mwanza. Come in altri centri di detenzione della Tanzania, le celle sono sovraffollate, le guardie abusano fisicamente dei prigionieri e le condizioni sanitarie sono disastrose. L’accesso al cibo, all’acqua e alle cure mediche è un lusso che nessuno si può permettere. Nelle condizioni miserabili di vita a Butimba, pena di morte, pena fino alla morte o morte per pena sono vicende esistenziali distinte solo sulla carta.
Due reati comportano la pena di morte in Tanzania: omicidio e tradimento. La legge in caso di omicidio non ammette attenuanti, la pena è solo una, obbligatoria, inesorabile: la morte. L’articolo 197 del codice penale è lapidario: “Una persona condannata per omicidio sarà condannata a morte”. Anche il metodo di esecuzione non consente alternative. L’articolo del codice è più descrittivo ma il modo di uccidere è uno e uno solo: la forca. “Quando una persona è condannata a morte, la sentenza deve disporre che subisca la morte per impiccagione”.
Contro tanta certezza della pena e voglia di tirare il collo ai condannati da parte del potere giudiziario in Tanzania, i due prigionieri del braccio della morte hanno chiesto aiuto alla più alta corte dell’Africa. Il 4 giugno scorso, la Corte Africana dei Diritti Umani e dei Popoli ha risposto all’appello. È stato un vero e proprio ultimatum nei confronti dello Stato-boia. Il tribunale di Arusha ha sottolineato che la pena capitale obbligatoria costituisce una violazione della Carta africana e ha concesso al Paese sei mesi di tempo per rimuoverla dai suoi statuti legali. Quanto al mezzo di esecuzione, il tribunale supremo del continente africano ha bollato l’impiccagione come una forma di tortura.
Nei casi di Zabron e Damian, il tribunale africano ha respinto i ricorsi per l’annullamento totale delle loro condanne. La colpevolezza era stata stabilita oltre ogni ragionevole dubbio nei rispettivi procedimenti giudiziari senza alcuna prova di “errore giudiziario”. Ma ha stabilito che le loro condanne a morte per impiccagione devono essere revocate immediatamente, che i detenuti devono essere spostati dal braccio della morte e che le udienze per una nuova sentenza si dovranno tenere entro un anno “attraverso una procedura che non consente l’imposizione obbligatoria della condanna a morte e che rispetti il potere discrezionale del giudice”. Ha affermato inoltre che la condanna a morte obbligatoria ai sensi dell’articolo 197 del Codice penale della Tanzania “costituisce una privazione arbitraria del diritto alla vita” e viola l’articolo 4 della Carta africana poiché non consente al giudice la “discrezionalità di comminare qualsiasi altra pena una volta accert ato il reato di omicidio”. La Corte ha inoltre deplorato l’impiccagione come metodo di esecuzione della pena di morte, affermando che si tratta di “una forma di tortura e di trattamento crudele, inumano e degradante che viola l’articolo 5 della Carta”. Ha affermato che le violazioni contro il diritto alla vita accertate in entrambi i ricorrenti “si sono estese oltre i loro casi”. Anche perché, attualmente, oltre 490 persone rimangono nel braccio della morte tanzaniano in attesa dell’esecuzione delle loro condanne a morte emesse dai tribunali nazionali.
La Corte continentale ha richiesto allo Stato di pubblicare le due sentenze, entro tre mesi e poi ininterrottamente per un anno intero, sui siti web del ministero degli affari giudiziari e legali. La sentenza-ultimatum in questa forma di bando pubblico è giunta dopo diversi ordini simili emessi negli ultimi anni nei confronti della Tanzania. Lo Stato aveva fatto orecchie da mercante e la pena di morte tramite impiccagione era rimasta sancita nel codice penale del Paese. Nonostante la Tanzania sia circondata da vicini che hanno abolito la pena di morte obbligatoria, tra cui Kenya, Uganda, Malawi, Mozambico e Zambia. Nonostante l’ultima esecuzione in Tanzania sia avvenuta trent’anni fa, sotto il presidente Ali Hassan Mwinyi nel 1994. Dopo di lui, nessun mandato di esecuzione è stato firmato dal presidente Benjamin Mkapa, dal presidente Jakaya Kikwete e dal presidente John Magufuli che prima di morire aveva inaugurato una politica di clemenza volta anche ai prigionieri nel braccio della morte.
Il mese scorso, il presidente in carica, Samia Suluhu Hassan, ha concesso l’amnistia a 1.082 prigionieri. Tra loro c’erano 20 prigionieri nel braccio della morte le cui condanne sono state commutate in ergastolo. Questo corso positivo della storia della Tanzania dovrebbe continuare e, alla fine, portare a cancellare la pena di morte dalla legislazione del Paese. Come chiede la suprema corte dei diritti umani e dei popoli, la prima linea del fronte della crescente opposizione in Africa all’ultimo, terribile retaggio dell’era coloniale.

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